Le coste italiane sventrate dai balneari, un disastro per l’ambiente e per l’economia

 Lo Stato incassa appena 100 milioni di euro, mentre i concessionari hanno un giro d’affari da 30 miliardi. Il 60% delle spiagge deve essere libero, il 40% gestito dai Comuni. Gli abusi vanno sanati durante l’inverno






I connotati paradossali della vicenda delle concessioni demaniali delle spiagge italiane sono già ampiamente noti, mentre sembrano sottovalutati gli aspetti ambientali che, a guardar bene, sono quelli davvero essenziali. E che riguardano la tutela e la conservazione delle spiagge che sono patrimonio inalienabile di ciascun italiano. Che non solo non sono state garantite dai concessionari, ma sono state addirittura ignorate e disattese. Soprattutto le costruzioni non removibili, in cemento e mattoni, messe in opera dai concessionari nei decenni. Varrà la pena di ricordare che l’articolo 1161 del Codice della Navigazione parla di «esclusione del diritto collettivo d’uso … in modo da impedire la fruibilità… o da comprimerne in maniera significativa l’uso…» e che, in questo contesto, nessuna costruzione è legittima sulle spiagge demaniali.

Sarebbe stato il caso di approfittare della direttiva europea non solo e non tanto per censire i chilometri di spiaggia italiani liberi da concessioni, ma soprattutto per censire quante e quali costruzioni non removibili sono state erette sul patrimonio di tutti quanti noi per favorire il guadagno di pochissimi. Ma anche il censimento delle spiagge si è rivelata una simpatica buffonata: se devo censire un bene comune dovrei appellarmi agli organismi preposti e, in campo ambientale, in Italia, per fortuna, ce ne è uno davvero autorevole che è l’Ispra, per non dire di Cnr, Università, istituti oceanografici e marini, osservatori geofisici. E poi ci sarebbe il buon senso, che indica che non puoi considerare tutta la linea di costa della penisola e delle isole, ma devi censire le spiagge, tenendo però fuori le aree marine protette, i tratti non balneabili, le spiagge abbandonate, quelle dove sorgono le città, per un totale di tratti di costa bassa e sabbiosa non disponibili in concessione a priori di circa il 30% (sottostimando) o meno.

Non stupisce che né l’una né l’altro abbiano guidato il censimento governativo, che nella “Relazione sullo stato di avanzamento dei lavori del tavolo tecnico consultivo” sulle concessioni è arrivato a stimare il totale delle linee di costa in 11.172,794 metri. Una cifra così precisa che fa presumere che tutte le coste italiane siano difese da un perimetro di cemento, perché, se fossero davvero naturali, nessuno potrebbe conteggiarle in maniera esatta, visto che sono in grado di variare di un centinaio di chilometri in pochissimi anni. E, in extremis, a cercare di propalare l’idea che si possano dare in concessione anche le coste rocciose, prefigurando scenari ambientali da incubo, prima che impossibili, perché ciò significherebbe coprire letteralmente di infrastrutture tubulari, metalliche e di legno, fissate, rocce e scogliere (cosa che già accade dovunque si tentano queste sciagurate strade).

CONTINUA A LEGGERE SULLA STAMPA

Commenti